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Tutti i campioni del mio cuore

Quando nel 1952 Pino Dordoni entrò nella Grande Storia

Tutti i campioni del mio cuore - Mauro Molinaroli racconta la storia dello sport piacentino attraverso i ritratti degli sportivi che hanno lasciato un segno indelebile

Inizia "Tutti i campioni del mio cuore", una nuova rubrica di Mauro Molinaroli, che ci dipinge i ritratti di alcuni degli sportivi piacentini più importanti, quelli che hanno lasciato un segno nella nostra storia. Un racconto ricco di aneddoti e curiosità, che non considera solamente i risultati sportivi ma li affianca alle emozioni vissute a livello personale. Si parte da uno dei più grandi: Pino Dordoni, campione olimpico nella 50 chilometri di marcia a Helsinki nel 1952

E’ un’Italia povera, uscita da soli sette anni dalla guerra quando Pino Dordoni si affaccia alla porta di maratona di Helsinki per conquistare un oro olimpico ora nella storia. Una sorta di riscatto sociale, un successo che sa di fatica e di mito. E’ una vittoria sofferta, frutto di tanto impegno che fa seguito ad una tradizione nata con Altimani e Frigerio e proseguita con il campione piacentino che il 21 luglio 1952 conquista nello stadio di Helsinki l’oro dei 50 chilometri di marcia. Due sono i minuti di distacco sul ceco Dolezal, altro grande specialista della distanza e Dordoni conquista anche con il nuovo record olimpico. Se è vero che quelli furono i Giochi olimpici dei coniugi Zatopek, lui a conquistare tre incredibili successi nei 5 e 10mila e nella maratona e la moglie Dana ad aspettarlo nello stadio, mente nel frattempo si aggiudica la gara di giavellotto, è altrettanto vero che grazie a quel successo Dordoni entrò nel mito da eroe. La Piacenza della ricostruzione, ancora segnata dai bombardamenti del 1944 si ritrovò improvvisamente sul tetto del mondo.

Già, perché nasce a Piacenza Pino Dordoni e la storia sia pure ufficiosa parla di 502 vittorie in gare regionali, nazionali ed internazionali, sulle circa 750 da lui disputate. Pino aveva iniziato presto con la gare campestri e si era messo in luce dimostrando capacità e grande tecnica. Aveva superato le disavventure della guerra perché aveva aderito dopo il 1943 alla Repubblica Sociale. Aveva vinto tanto ma, bravura a parte, di lui si parlava come esempio di stile, perché quello stile era unico, era forza, bellezza ed eleganza come aveva più volte sottolineato il suo allenatore Guido Rizzi. Nel palmares di Pino oltre al successo olimpico, 18 presenze in Nazionale e un campionato europeo nel 1950. Diventerà poi dirigente e tecnico del settore e manterrà lo stesso impegno maniacale concentrandosi spesso sui particolari come quando faceva l’atleta. Qualcuno ai raduni della Nazionale gli diceva scherzando che avrebbe dovuto essere più morbido, più flessibile e la risposta era sempre la stessa: “Dobbiamo dimostrare di saper meritare la fiducia che viene posta in noi con i fatti, e questi o sono giusti o sbagliati, non ci sono mezze misure”.

Di quell’affermazione olimpica hanno scritto in tanti, Gianni Brera e Gian Maria Dossena, Bruno Roghi e Luigi Ferrario fino al grande Italo Calvino. In Finlandia era tra i favoriti per classe mestiere e stile, i nomi ricorrenti erano cinque tra cui lo svedese Ljunggren, l’ungherese Roka ed il suo compagno Laszlo, animatore della prima parte della gara, poi inglesi e russi. C’era in ballo un milione di vecchie lire in caso di vittoria, in quel tempo di miseria e di fatica erano tanta manna anche se oggi semplificando al massimo sarebbero solo 500 euro. Giulio Onesti futuro presidente del Coni, fu uomo di parola ed elargì quel gruzzoletto a Dordoni e Pino ringraziò.

Scrisse Brera di quel giorno e di quell’Italia magra e povera: “Caro vecchio Dordoni piacentino, vorrei che sul nostro fiume, questa sera, i paesani accendessero fuochi di festa come dopo le antiche regate vittoriose. Vorrei che così celebrassero l’inarrivabile campione di uno sport che si addice alla nostra modestia di un francescano sport, per il più francescano dei popoli. Tu entravi a passo ancora allegro, salutando la folla, e io questo pensavo nell’ora del tuo trionfo. Tanto bene mi fece vederti salire modesto il podio del vincitore. Quest’atto, Dordoni, valeva quasi il tuo record. E poiché sentivo salire agli occhi le lacrime, gridai per non piangere a Kressevich che sulle piante infuocate a stento si muoveva, verso te per abbracciarti. Anche per Kressevich dovrebbe brillare un fuoco, Dordoni, questa sera sul nostro fiume natio”. Giuseppe Kressevich, classe 1916, era l’altro italiano, si classificò poi decimo ad oltre sedici minuti da Dordoni.

All’arrivo di Dordoni c’era nella parte bassa della tribuna a tifare, la Nazionale italiana di calcio, da poco travolta da una delle più potenti macchine da guerra mai allestite nella storia dello sport calcistico, l’Ungheria di Puskas, Kocsis, Hidegkuti, Bozsik espressione della mitica Honved. Ma questa è un’altra storia.

Dirà Dordoni a proposito di quel successo: “Divenni il cocco di Giulio Onesti. Poi venne l’oro di Irene Camber nel fioretto, ma a rompere il ghiaccio toccò a me e per qualche giorno ebbi tutti gli onori, persino una macchina a disposizione. Ma l’omaggio più vero, più sincero e inaspettato me lo regalarono i russi: era la prima volta che venivano ai Giochi e non erano nemmeno nel nostro villaggio. Noi stavamo a Kapyla, in un blocco di case popolari, loro ad Otaniemi, nella foresta. Il giorno dopo la vittoria, andai da uno di loro, un amico. Gli altri erano sul cancello, applaudivano, e io chiesi: chi applaudono? Applaudono te, mi rispose”. E ancora: “Non avevo un dubbio, ero il più forte. Solo un timore: i piedi, che non è una roba da ridere per uno che marcia. Negli ultimi allenamenti, a Piacenza, avevo rinunciato a usare le mie scarpette da gara. Erano guanti, non volevo utilizzarle ed erano le uniche che avevo. Oggi quelli forti ne hanno anche otto paia. Così calzai quel che trovai, un paio di scarpe da basket, con il puntale in gomma. Mi rovinai le unghie degli alluci e Giorgio Oberweger, il commissario tecnico prima che partissimo mi portò da un medico milanese che me le estirpò. Così partii per l’Olimpiade con una fasciatura e un’infezione che pulsava. Ma quel giorno, al 35° chilometro, quando diedi lo scossone decisivo, dimenticai di essere il padrone di quelle dita disastrate”.

C’è da emozionarsi ancora oggi, c’è da essere felici di scrivere queste righe. Non ho mai conosciuto personalmente Dordoni, ricordo quando il sindaco Roberto Reggi gli dedicò il Campus di atletica leggera, ricordo certi filmati in bianco e nero apparsi sulle Teche Rai, le foto virate a seppia, il suo sguardo apparentemente severo, il suo portamento elegante, la narrazione di una storia italiana, meglio di una lunga storia nata a Piacenza e l’autenticità di un campione che ha dato tanto al nostro Paese. Questa è Grande Storia.

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