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Walter Sabatini, un dirigente visionario ed esistenzialista

La sua splendida biografia si intitola “Il mio calcio furioso e solitario”

E’ un bel libro “Il mio calcio furioso e solitario” (Piemme) scritto da uno dei direttori sportivi più anomali del nostro calcio, Walter Sabatini, da pochi giorni nelle librerie. Un libro che si diversifica dalle tante biografie dedicate a calciatori e ad allenatori, perché nella sua genialità e nella capacità di andare spesso contro, Sabatini ci regala non solo una biografia professionale ed umana, ma anche un piccolo saggio di filosofia di vita in cui calcio ed epica s’incontrano nel dolore, nelle ansie quotidiane, nelle notti insonni di quest’uomo mai sereno e poco pacificato con se stesso e nel modo di gestire le tante società di calcio che ha diretto, con un amore particolare per la Roma. La società giallorossa sembra infatti avere un posto di privilegio non solo nell'attività professionale ma anche nel cuore. Il libro oltre a regalarci le storie e vicende di un ex calciatore senza troppe qualità e di uno straordinario talent scout, dirigente di Lazio, Palermo, Sampdoria, Inter, Bologna, Roma e, recentemente, della Salernitana con cui ha compiuto un autentico miracolo salvandola lo scorso anno dalla retrocessione in serie B, ci offre un’immagine di Sabatini che non ha mai temuto di essere considerato eccessivo, visionario, scontroso, persino maledetto. Per lui vita e pallone sono inesorabilmente intrecciati, in una matassa che solo ora ha deciso di dipanare tra le pagine di questo libro intriso del suo stile inconfondibile, scritto in forma di lettera al figlio Santiago ma in grado di svariare da Totti a Pasolini, da Pelé a García Márquez, da Spalletti a Joyce.

Un lungo racconto da cui emergono tutto il suo genio e tutta la sua sregolatezza, che rievoca senza ipocrisie splendori e miserie dello sport nazionalpopolare per eccellenza. E insieme la storia personale di Sabatini, che nel libro mette in evidenza i momenti drammatici e i fallimenti più che i riconoscimenti ottenuti. “Il mio calcio furioso e solitario” è la rappresentazione di un uomo tormentato e controcorrente, “cervello di sinistra, corpo di destra”, ma rimasto fedele al bambino che durante le estati al mare alle colonie estive sognava il clima invernale della Serie A, fra nebbia, stadi e pallone. Ci sono personaggi che hanno segnato la vita di questo manager a sé stante nel calcio italiano e non solo, come ad esempio la figura di Frederic Massara, oggi direttore sportivo del Milan ma per anni stretto collaboratore di Sabatini prima al Palermo e poi alla Roma. Ci sono anche Francesco Totti e Radja Naingollan espressioni diverse di una Roma da amare, il primo un genio del calcio che ha l’anticipo nel sangue, che sa far correre il pallone più velocemente degli altri giocatori e che vorrebbe giocare fino a che si diverte, il secondo un mastino dotato di forza e potenza che avrebbe potuto fare tanto se non fosse lasciato troppo solo. E ancora gli acquisti di giocatori del valore di Javier Pastore, scovato nel cuore dell’Argentina più recondita e portato a Palermo alla corte di Zamparini, presidente geniale, vulcanico che passerà alla storia per avere cacciato almeno una trentina di allenatori. Il calcio come commedia e come tragedia, vita e morte, sogno e bellezza, tormento ed estasi.

Sabatini si considera un sopravvissuto ai malanni di un corpo lacerato dalle troppe sigarette e dalla tensione eccessiva, da un lavoro stressante portato avanti oltre ogni limite e dai continui viaggi nelle terre d’oltreoceano come un marinaio d’altri tempi. Ma da quei viaggi tornava con un tesoro, un calciatore che avrebbe fatto la fortuna del presidente di turno. Il libro è sincero come chi lo scrive che più che agli aneddoti si affida al proprio disagio, a un esistenzialismo di natura sartriana e il nostro uomo si sente in certi momenti lo Straniero di Albert Camus. Come ci dice egli stesso, “Il calcio è una tragedia, con le sue sconfitte mortifere, carriere ribaltate per un calcio d’angolo sbagliato, tiri sbilenchi in tribuna, speranze di intere comunità frantumate. Se Eschilo e Sofocle, o lo stesso Shakespeare, avessero conosciuto il calcio, avrebbero rappresentato le loro tragedie mettendo negli anfiteatri calciatori e allenatori, e il pubblico a rappresentare il coro”. Da leggere.

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