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La crisi del calcio descritta da Franco Vanni e Matteo Speziale

Nel libro "Il calcio ha perso" i due autori fotografano le debolezze croniche di uno sport che non emoziona più

Può sopravvivere il calcio a un sistema impazzito con le spese spesso fuori controllo? E fino a quando i top player del pallone potranno percepire ingaggi faraonici in tempi di pandemia, di guerra e di recessione? A queste e ad altre domande prova a dare risposte molto appropriate l’ultimo libro di Matteo Spaziante, giornalista di “Calcio e Finanza” e Franco Vanni, giornalista di Repubblica, nel loro libro “Il calcio ha perso”, sottotitolo “Vincitori e vinti nel mondo del pallone” (Mondadori) uscito nel gennaio scorso.

La lettura di questo volume rappresenta per chi è appassionato e per chi vuol capirne un po’ di più, un bagno di realtà e di consapevolezza su uno sport, il calcio, che di sportivo oggi ha ben poco; perché ha privilegiato il business a tal punto da perderne il controllo: “Perché – scrivono i due autori – le società di serie A, indebitate per oltre 5 miliardi di euro, continuano a pagare stipendi che non possono permettersi?” e certamente non ci si può aggrappare come è stato più volte erroneamente sottolineato al fatto che il merchandising sarà in grado di ripianare i debit0i, perché come ha dimostrato la folle spesa per Cristiano Ronaldo (un esempio, il più eclatante), tutto ciò ha contribuito a impoverire le casse delle società, a ridurne la liquidità fino a un massiccio aumento di capitale messo in atto da Exor. La cassaforte della Real casa torinese con sede legare in Olanda. Stessa cosa per i diritti televisivi, che hanno portato il calcio nelle case di milioni di italiani, sottraendolo però alla sua dimensione “artigianale” ed emozionale per trasformarlo in un’industria multimiliardaria, ma sull’orlo del fallimento.

Non è tutto oro quel che luccica tant’è che da tempo la serie A spera di intercettare aiuti pubblici, ma non riesce a far fruttare il patrimonio che già ha. A partire dagli stadi, vecchi, fatiscenti, non progettati per il calcio e di proprietà dei Comuni, che non hanno le risorse e del resto non è compito loro rendere gli stadi accoglienti e ospitali attraverso punti di aggregazione. Poche società (l’Atalanta è un esempio calzante secondo i due autori) hanno sanato i loro bilanci e stanno guardando con attenzione ai settori giovanili e alla crescita aziendale perché per il resto, paradossalmente, il calcio continua a vendersi come la terza/quarta industria del Paese ma non è così. Infatti è evidente la carenza di manager in grado di dare una visione e un futuro adeguato a questo sport, che sta perdendo la propria valenza corale di fenomeno sportivo, per assumere i toni dello show business con le difficoltà che ne conseguono.

Dunque, secondo Spaziante e Vanni il calcio ha perso quando la gestione degli ingaggi dei giocatori è stata affidata in toto ai procuratori, il cui potere oggi è enorme, ha perduto anche quando ha cominciato ad affidarsi alle scommesse dei fondi di investimento e a dinamiche geopolitiche che poco hanno a che fare con lo sport. Non arriveremo al default, ma reggersi su un sistema che fatica a riformarsi e che sembra non rendersi conto fino in fondo delle difficoltà in cui sta vivendo è pura miopia. 

A catena, questa crisi ha coinvolto le società più piccole e le serie minori dove le società continuano ed essere considerate professionistiche quando i fallimenti delle stesse sono sempre più numerosi. C’è poi una crisi dei settori giovanili perché il calcio, soprattutto al Nord, è meno praticato rispetto a una decina di anni fa, insomma “mala tempora” per l’universo del pallone che continua a reggersi su un’architettura troppo fragile e senza vere prospettive per il futuro. Ergo un bel libro.

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