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Franco Causio, il Barone bianconero

La biografia “Vincere è l’unica cosa che conta”, scritta da Italo Cucci, è uno spunto di riflessione sui valori dello sport e della vita

A volte i libri sono storie personali, ricordi impressioni, stati d’animo. Così è con  la biografia di Franco Causio, “Vincere è l’unica cosa che conta” (Sperling & Kupfer, pagg. 156), un lungo racconto, una storia di vita, un sogno che non muore, una storia di calcio e di vita scritta insieme a Italo Cucci, uno dei decani del giornalismo sportivo italiano nel 2015. Ricordi dicevamo, ricordi di un’intervista, di una serata a Castelsangiovanni, nel salone della parrocchia gremito di tifosi, giovani e meno giovani. Il Barone accompagnato dalla moglie brasiliana, impeccabile come sempre, raccontò un mondo lontano, in colloquio con il giornalista Giorgio Lambri. Queste pagine sono una confessione, le vicende di un giovane terrone che cerca riscatto al Nord, non come operaio alla Fiat o in qualche altra industria, ma attraverso il calcio che conta con la maglia più blasonata d’Italia, quella bianconera.

Causio oggi è fuori dai balli, nel senso che dopo avere smesso con il calcio giocato non ha allenato e non ha avuto ruoli dirigenziali (è stato osservatore, questo sì), ciò nonostante nessuno ha dimenticato la sua classe, il suo piede vellutato, le sue magie lungo la fascia, la sua eleganza stilistica in campo e fuori. Era il Barone ma anche “Brazil” e da ragazzo pure milanista. Cosa strana per un leccese, il Salento è da sempre feudo della tifoseria zebrata, ma il futuro campione juventino stravedeva per Rivera, il suo idolo e lo confessa in questo libro che si legge come fosse un frizzantino, perché è microstoria, memoria, aneddotica e soprattutto filosofia di vita quotidiana. “Bianconero da una vita” si legge in copertina, perché il suo cuore è rimasto alla Juve (confidò senza ritrosia durante l’intervista che gli feci qualche giorno prima): “A 16 anni ho lasciato Lecce, e a quei tempi era davvero difficile lasciare casa così giovani. L’ho fatto prima per San Benedetto in serie C, dove ho giocato una stagione facendo e poi per Torino, dove sono arrivato alla Juventus scoperto da Luciano Moggi, che all’epoca era un dipendente delle Ferrovie dello Stato. La Juventus ha sempre avuto e avrà sempre il Dna del successo. Lì ti insegnano a vivere, come comportarsi dentro e fuori dal campo. Lo stile Juve non è la giacca, la cravatta o l’orologio sul polsino, ma il grande rispetto verso tutti e verso se stessi. Giampiero Boniperti e l’avvocato Agnelli mi hanno aiutato a crescere, devo molto a loro ed io sarò bianconero a vita”.

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