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De Lellis: «Mi sono sentito tradito e usato. Volevano che fossi il capro espiatorio»

Il preparatore atletico coinvolto (e assolto in via definitiva) nel caso-Polo racconta l'ultimo anno e mezzo. «Sono stato vittima di un indecoroso linciaggio mediatico»

Una vicenda lunghissima, iniziata il primo aprile dello scorso anno, quando arrivò l'ufficializzazione della positività al doping di Alberto Polo, e terminata solamente qualche settimana fa con l'assoluzione in via definitiva. In mezzo Carlos De Lellis ha trascorso momenti difficili, dovendosi concentrare esclusivamente su quanto succedeva nelle aule dei tribunali rimanendo lontano da quelle palestre frequentate per decenni. Adesso, dopo un lunghissimo silenzio rotto brevemente solo dopo la sentenza di secondo grado, racconta cosa è successo in questo anno e mezzo e anticipa il futuro che lo attende.  

Carlos De Lellis, ha detto che avrebbe parlato della squalifica per quattro anni di Alberto Polo, che l’ha vista coinvolta in prima persona, solo una volta definitivamente conclusa la vicenda giudiziaria. Adesso che è terminata quale è la sua versione?

«Ciò che lei chiama la “mia” versione, altro non è – per quanto riguarda la mia posizione – che la verità, l’unica ricostruzione dei fatti possibile, ossia quella che è stata accertata in via definitiva dagli organi di giustizia sportiva preposti a reprimere gli illeciti antidoping. Alla luce delle relative decisioni finali note a tutti è pienamente intellegibile da chiunque. Da un lato si è riscontrata nel campione biologico dell’atleta la presenza di sostanze vietate e, dall’altro lato si è accertato che non sono stato io a somministrargliele, né che ero anche solo a conoscenza della natura illecita dei prodotti assunti dal signor Polo».

C’è stato chi l’ha condannata prima ancora di leggere le carte, che peraltro in buona parte sono ancora inaccessibili. Come si è sentito in questi mesi?

«Mi sono sentito tradito e usato. È evidente che a più di qualcuno faceva (e ancora oggi fa) comodo scaricare l’intera responsabilità della vicenda su di me. A seguito dell’accertamento della positività dell’atleta ho subito pressioni di ogni genere e tipo affinché assumessi il ruolo di capro espiatorio. Consapevole della mia innocenza e fiducioso che la stessa sarebbe emersa nelle competenti sedi mi sono fermamente rifiutato. È quindi iniziato nei miei confronti un indecoroso linciaggio mediatico, in alcuni casi alimentato da calunniatori celati dietro fantomatici “nickname” e “cavalcato” da certi giornalisti poco propensi al garantismo. Quanto poi all’inaccessibilità degli atti processuali, io sarei ben contento di vederli integralmente pubblicati, ma temo che, per ragioni di privacy, ciò non sia possibile».

Chi ha seguito la vicenda dall’esterno dice, in modo anche un po’ superficiale ma comunque comprensibile: difficile che il giocatore abbia fatto tutto da solo. Lei cosa replica?

«In linea generale, ritengo che un tale ragionamento poggi su un errato preconcetto, ossia che dietro a una positività antidoping ci sia sempre, necessariamente, un articolato piano dopante subdolamente pianificato per migliorare in modo fraudolento le prestazioni agonistiche di un atleta. In realtà, non è infrequente che l’assunzione e l’eventuale prescrizione di un prodotto – che solo all’esito del controllo si scopre contenere sostanze vietate – avvenga in buona fede per finalità diverse e senza la consapevolezza della sua incompatibilità con la normativa di riferimento. Nonostante ciò, purtroppo, gli atleti sono comunque chiamati a rispondere della violazione perché su di loro grava un preciso onere di verificare preventivamente la composizione di tutto quanto introducono nel proprio organismo».

In questo anno e mezzo ha parlato solamente una volta. Quante richieste di illustrare la sua versione ha rifiutato?

«Nessuna. L’interesse alla condanna mediatica non prevedeva spazi per arringhe difensive».

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