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Maradona, Bruno Conti, Baresi e il Piacenza tutto italiano. Il capitano Settimio Lucci ci racconta 20 anni di carriera

Totem per i piacentini è forse il difensore più amato in biancorosso. Mino ha cavalcato l'epoca d'oro del calcio italiano negli anni '80 e '90. «Con Bobo bastava uno sguardo per capirci. Quel Piacenza aveva dentro di sé una filosofia che non si è mai più rivista»

Andiamo oltre e regaliamo qualche minuto di spensieratezza ai lettori. Settimio Lucci inizia la sua carriera nelle giovanili di Lazio e Roma.
«Alla Lazio proprio da piccolo, parliamo di Esordienti, poi sono passato alle giovanili della Roma. Una volta era diverso, non c’era tutta la trafila che c’è adesso. Pochi campionati, poche categorie e poi arrivavi in Primavera. La strada era più veloce. A un certo punto con la Primavera della Roma giocammo un’amichevole contro l’Avellino, avevo 18 anni, andai bene e il presidente Sibilia mi volle con loro».

Ma tifa Roma o Lazio?
«Né una né l’altra»

Il tecnico ad Avellino era Ottavio Bianchi. Si capiva che avrebbe scritto pagine storiche nella Serie A?
«Assolutamente sì. Era un uomo di personalità e ha dimostrato il suo indiscutibile valore anni dopo alla guida del Napoli con cui vinse Scudetto e Coppa Uefa. Quello era un calcio profondamente diverso».

Ad esempio?
«Io avevo 18 anni, a quell’età ti facevano portare le borse di allenamento e dovevi tacere, però se c’era bisogno si era anche pronti a farti esordire in prima squadra. A 18 anni come accadde a me era molto presto però te ne davano la possibilità».

Si è allenato con Diaz a 18 anni.
«Gran giocatore, molto talentuoso e si è visto negli anni successivi. Però in quell’Avellino non c’era solo lui. Penso a Osti, Colomba, Di Somma. Insomma, era una gran bella squadra».

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E poi?
«Collezionai 14 presenze, mica male in Serie A a 18 anni. Terminata la stagione mi chiamò il presidente della Roma, Dino Viola. Andai a casa sua ai Parioli insieme a mio padre perché a quel tempo non c’erano i procuratori e mi disse: rimani ad Avellino o torni alla Roma? Probabilmente la risposta esatta era “rimango ad Avellino” perché lì giocavo mentre alla Roma la questione era molto più complessa. Il problema era che avevo 18 anni e mi chiamava la Roma finalista di Coppa Campioni e campione d’Italia due anni prima. Scelsi il giallorosso».

E trovò non solo Sven Goran Eriksson ma anche Ancelotti, Cerezo, Conti, Pruzzo, Giannini e Falcao.
«Eriksson aveva personalità e profonda conoscenza del calcio internazionale. Cambiò tutto a livello tattico con allenamenti mai provati fino a quel tempo. Le sedute erano tutte diverse, lui voleva verticalizzare subito, come iniziava l’azione la palla doveva arrivare davanti. Il primo anno onestamente fu difficile, al secondo sfiorammo lo Scudetto, perdemmo alla penultima in casa contro il Lecce e la Juventus andò in vetta alla classifica. Una domenica di cui si parla ancora adesso dopo più di 30 anni».

Se le dico Falcao?
«Rispondo che è il classico esempio di come sia l’aspetto umano a far la differenza nei campioni. Falcao terminato l’allenamento chiamava i giovani, come me e Giannini, e si fermava con noi lì a palleggiare. I fuoriclasse sono tali perché diversi sul piano umano».

A proposito: il principe Giannini o re Totti?
«Giannini è stato un grande giocatore ma Totti è un campione assoluto. Una volta lo invitai all’inaugurazione di un mio negozio a Frascati. Lui era già Totti e come si muoveva non poteva camminare. Eppure si presentò. Una semplicità pazzesca per una persona squisita. E’ una grande persona».

Fermi un attimo: c’era pure Boniek il “bello di notte” in quella Roma.
«Zibì era davvero un cavallo matto. Con la palla al piede era qualcosa di pazzesco. Partiva e non riuscivi a fermalo dopodiché alzava la testa e ti pennellava il pallone sui piedi. Incredibile».

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