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Parla il capitano. Totò De Vitis: «La favola Piacenza nasceva da una società perfetta. Tutti conoscevano il proprio limite»

Il bomber biancorosso per eccellenza si apre alla nostra rubrica. «Il gol di tacco al Verona? Fidati, fui fortunato» mentre sui tifosi della Cremonese: «Mi auguravano la morte, gli infilai una doppietta». E ancora: «Pippo Inzaghi non ha studiato alla mia scuola, aveva l’istinto del gol che è innato per un attaccante di razza».

Tris mica da ridere: Palermo, Salernitana e Taranto.
«I gol li ho sempre fatti e quello fu un periodo in cui girai molto al Sud. Tutte piazze calde, difficili, che ti permettono di fare una grande esperienza. La Serie C al tempo era un bel banco di prova per tutti, soprattutto in meridione, lì c’erano partite davvero toste».

Dopodiché arriva Udine e da lì ti affacci realmente alla Serie A.
«Fu la prima vera volta che conquistai la Serie A, una categoria in cui sinceramente ho giocato poco probabilmente perché ero più uno da B. Comunque fu un periodo importante, poi mi feci male al ginocchio e quello arrestò per un attimo la mia carriera».

A Udine trovasti Simonini, Lucci, Iacobelli che poi incontrerai nuovamente sul tuo cammino a Piacenza. Inoltre grande squadra quella con Sensini e Balbo.
«E non sono mica finiti qui. C’era Minaudo, arriverà a Piacenza anche lui. Branca era un giocatore straordinario, come Nestor Sensini. Poi c’era Garella che parava di piede ma parava, eccome se lo faceva. Balbo sinceramente sembrava avesse la calamita in area di rigore, erano tutte sue e andavano in rete».

E poi? C’era un giocatore particolare?
«Ricardo Gallego, capitano del Real Madrid con 250 presenze con i Blancos. Percepii subito lo spessore del personaggio. L’Udinese a quel tempo non era una piccola, qualche anno prima era riuscita a prendere Zico, concordo sul fatto che in quegli anni anche le squadre non di primissima fascia riuscivamo a ingaggiare giocatori eccezionali. Quasi impensabile oggi».

Dopodiché arriva Marchetti e qui inizia la favola con il Piacenza.
«Io volevo lasciare Udine dopo l’infortunio e Marchetti fu il primo a telefonarmi. Se devo essere onesto all’inizio fui titubante perché cercavo una squadra in grado di lottare subito per tornare in Serie A, il Piacenza al tempo aveva come obiettivo la salvezza. La trattativa con il mio procuratore durò una ventina di giorni, poi fui colpito dalla caparbietà di Marchetti e da quanto puntasse su di me; così accettai».

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Ha molto merito nella costruzione di quella favola.
«Marchetti è sempre stato un direttore onesto. Quello che diceva poi lo manteneva. Incontrai lui e Quartini, quel giorno ho capito le reali ambizioni del club e ho detto sì al Piacenza».

Un altro grande uomo in quella storia è l’Ingegnere, Leonardo Garilli.
«Ti correggo. Era una grandissima persona, grande è troppo poco. A lui non servivano molte parole anzi, addirittura si dice non guardasse nemmeno le partite ma ci teneva tantissimo al Piacenza. La sua forza fu quella di circondarsi di collaboratori e uomini di fiducia a cui, per prima cosa, dava ascolta. Poi è chiaro, la decisione finale era la sua, ma ti ascoltava. Aveva creato un team perfetto di persone e le lasciava lavorare».

Se dico Cosenza cosa rispondi?
«La settimana che ci portò a quella partita fu particolare, sapevamo benissimo la posta in palio. Cercammo di rimanere il più possibile tranquilli. Mi ricordo che durante una partitella ci fu una contestazione a Simonini, in quel momento mi dissi “ehi, sono sicuro che sarà proprio lui a segnare il gol della promozione in A”. E così fu. Siamo stati bravi, molto bravi, e ricordati che nessuno ci regalò nulla in quella stagione, anzi. Ricordo ancora nei minuti finali della partita di Cosenza loro che centrano la traversa. Sai, nel calcio ci vuole anche un pizzico di fortuna».

Senti, prima di chiamarti abbiamo guardato in loop il gol di tacco contro il Verona. L’avremo visto 100 volte. E’ il tuo più bello?
«Diciamo che è il mio più fortunato».

Scusa?
«Lo cose stanno così: il pallone arriva e io l’insacco al volo col tacco sinistro, che non è il mio piede. Lascia stare il gesto tecnico e il fatto che non ne vedi molti così. Colpii la palla di sinistro».

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E quindi?
«E quindi fui bravo a provarci. Sono sempre stato bravo a “provarci”».

Impossibile vero descrivere il rapporto tra un attaccante e il gol?
Scattano le risate. «Mi fai una domanda difficile. Diciamo che fare gol vuol dire, innanzitutto, avere nella testa le dimensioni della porta e poi sentirla, la devi sentire dov’è anche se non ce l’hai davanti. E’ una questione principalmente d’istinto, se ce l’hai bene sennò è un problema».

E qui veniamo alla Scuola De Vitis?
«Ho letto tutto e lasciami dire che Pippo Inzaghi sarebbe diventato lo stesso Pippo Inzaghi anche senza giocare con me. Lui aveva l’istinto del gol, scuola o non scuola. Dopodiché, se ho aiutato qualcuno a imparare a leggere le azioni ne sono contento ma fidati, Pippo il gol ce l’aveva di natura».

Ma?
«Vedi, il taglio sul primo palo lo devi fare se sei una punta. Stop. Tutti lo facevano, era una giocata naturale. Io lo sentivo particolarmente quel taglio, certo, al contrario sono uno che ha sempre dribblato poco. Fatico a ricordarmene uno».

Che rapporto avevi con Gigi Cagni?
«Il rapporto che ci deve essere tra un allenatore e un calciatore. Tutti noi dobbiamo qualcosa a lui e allo stesso modo lui deve qualcosa a noi. Il nostro segreto, forse, stava nel fatto che ognuno conosceva i limiti dell’altro e i propri, dunque nessuno invadeva l’altro».

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