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Giovedì, 25 Aprile 2024
Piacenza Calcio

Il Genio, la “scuola De Vitis” e la pista delle macchinine. L’avventura di Massimo Brioschi a Piacenza: «Cosenza è solo il titolo della storia»

I “Migliori Anni del Piace”. Il Brio: «Se vai in guerra ti porti Casiraghi. San Siro nel ’94 fu una farsa ma quell’ingiustizia ci rese invincibili nella stagione successiva. I più forti? Savicevic e Totò».

Uno sport che entra ben presto nella tua vita a tuttotondo?
«Direi di sì. Dopo aver iniziato nella squadra del mio paese, il Biassono, passo alle giovanili del Monza nella categoria Pulcini. Da lì ho iniziato a giocare in modo diverso, più professionale, attraverso tutte le categorie. Le basi erano semplici e tutto era incentrato sulla continua ripetizione di gesti tecnici. Devi sapere che il Monza in quel periodo era una bella fucina di talenti».

Ad esempio?
«Conservo ancora una foto degli Esordienti. Se guardo la formazione ci siamo io, Antonioli, Casiraghi, Robbiati e Cristiano Giaretta che ha avuto una carriera più da dirigente ma ti assicuro era molto forte. Tra noi, chi più e chi meno, in molti hanno fatto una strada importante».

Perché arrivi a Piacenza nel 1991?
«Il perché andrebbe chiesto al grande direttore sportivo Marchetti o a Gigi Cagni. Probabilmente mi avvicinavo, per spirito di sacrificio e volontà, alle caratteristiche fondanti di quella splendida società».

Che rapporto avevi con Cagni?
«Più che buono, fatto di tanti alti e alcuni bassi. Chiaramente essendo calciatore a volte mi arrabbiavo quando non giocavo però gli devo tanto perché in fin dei conti mi ha formato. Quando arrivai al Piacenza avevo alcuni angoli da smussare e ho avuto una bravura, cioè l’essere disposto ad assorbire ancora delle nozioni per migliorare, e una fortuna, cioè l’aver incontrato sulla mia strada Cagni che ha capito questa cosa e mi ha migliorato. Ero una spugna e la mia fortuna, ripeto, è stata quella di incontrare Gigi sul percorso».

Ma c’era un trucco in quello spogliatoio?
«Nessun trucco, la mia opinione è sempre stata che quello era un puzzle perfetto dove ogni singolo pezzo si sposava alla perfezione con quello vicino e infatti abbiamo ottenuto un risultato, la conquista della Serie A. Ci si incastrava perfettamente a vicenda e, forse, il trucco vero è che tutto partiva dall’alto. Noi qui ragioniamo di squadra ma in realtà era la piramide a essere perfetta. Proprietà, dirigenti, staff tecnico, giocatori. E sai cosa..».

Dimmi.
«Cambiavano i giocatori, passavano le annate, ma il puzzle Piacenza era sempre perfetto. E’ il chiaro segnale di come tutto partisse dall’alto per scendere a cascata fin sui giocatori che andavano in campo. Se ripenso a quel periodo mi emoziono ancora e mi viene la pelle d’oca».

I migliori anni Cagni 4-2

Cosenza?
«Faccio una premessa: il Piacenza non è Cosenza. Quella fu solamente la tappa finale, meritata, di un percorso incredibile costruito negli anni e di cui ho detto poco fa. Cosenza è il titolo della nostra storia, ancora oggi quando vengo a Piacenza mi abbracciano per la prima promozione in A».

Come ci arrivasti a quella partita?
«La squadra era forte di testa e consapevole di che cosa si sarebbe giocata, per molti di noi potevano aprirsi le porte della Serie A. Non c’era solo consapevolezza ma anche la paura di non potercela fare, insomma le classiche emozioni prima dell’appuntamento più importante. Penso che tutti noi, la sera prima di scendere in campo, abbiamo consumato dieci volte le energie mentali che si consumavano in una normale vigilia. Io passai una nottata intera a ripetere maniacalmente un gesto sportivo che in realtà avevo fatto per tutta la stagione. E poi la vittoria, lo stupore della gente, i tifosi che avevano fatto più di mille chilometri per seguirci, l’aeroporto, la festa allo stadio e per le vie della città».

Però c’è anche Milan-Reggiana nei tuoi ricordi. Cosa ne pensi a oltre 25 anni di distanza?
«Non fu calcio quello e mi sento ancora oggi derubato di qualche cosa. Non so meritassimo più noi o più la Reggiana di salvarsi, però so che noi meritavamo di giocarci almeno lo spareggio. Quella sarebbe stata la giusta narrazione della storia e invece siamo retrocessi. Per fortuna ora non sarebbe più possibile un fatto del genere perché l’indecente vergogna fu soprattutto quella di farci giocare noi al venerdì sera l’ultima di campionato contro il Parma e poi, 48 ore dopo, Milan-Reggiana».

Riscaldamento fatto. Passiamo alla mitragliata: Gullit?
«Col Piacenza l’ho affrontato quando giocava nella Sampdoria ma dell’olandese conservo un ricordo più vecchio. Sono nel Monza e ci giochiamo a San Siro un turno di Coppa Italia. Siamo nel tunnel che porta al campo, lui era alla mia stessa altezza ma stava due gradini sotto. I “migliori anni” davvero».

Mancini?
«Ha fatto cose eccellenti nella Samp ma il meglio del Mancio l’abbiamo visto nella Lazio. Di base era un fuoriclasse però secondo me non ha espresso tutto il potenziale che aveva».

Boban ti piaceva?
«Ingranaggio di un talento sconfinato inserito in un Milan pressoché perfetto. Ricordo ancora il primo Milan-Piacenza in Serie A a San Siro, 2-0 per loro. C’erano Papin, Savicevic, Desailly però permettimi di dirti che in quella prima stagione in A non c’è stata una partita in cui abbiamo sfigurato. Alcune sono riuscite bene, altre meno, ma sfigurato mai».

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Il Piacenza era bello tosto.
«Tosto, forte, serio. C’erano ruoli ben definiti, accettati e rispettati da tutti, ecco questo forse è stato il nostro segreto. Totò De Vitis ad esempio era il capitano e non ricordo una sola volta che lui sia uscito dalle regole o abbia abusato di questo ruolo. Davanti c’era lui, in difesa Mino Lucci e per cui vale lo stesso discorso fatto per Totò: anche Mino non ha mai abusato del suo ruolo di leader. E attenzione che quando sei in alto può accadere molto facilmente, invece in quel Piacenza tutto era definito, rispettato, equilibrato e accettato».

E Brioschi?
«Io da soldatino ammiravo».

Baggio?
«Di lui mi ha sempre colpito l’enorme forza fisica in un giocatore che non faceva certamente del fisico la sua caratteristica principale. Commentarlo tecnicamente sarebbe invece superfluo, anche lui talento da fuoriclasse».

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