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Piacenza Calcio

Il baffo, il sogno e il grande incubo. Cagni: «Nel mio Piacenza tutti erano importanti. Col Cesena la partita perfetta».

Nella nostra rubrica dei Migliori Anni del Piace non poteva mancare il comandante che ci portò in Serie A. «Nel 94’ dopo Milan-Reggiana tirai un pugno sul volante dell’auto ma poi mi telefonò l’Ingegnere». E quella volta a San Siro con Maldini, Baresi e Desailly…

Quanto è diverso il calcio di oggi, rispetto agli anni del Piacenza tutto italiano?

«Molto, per certi versi in meglio – per conoscenze, alimentazione e durata della carriera – per altri in peggio. Pensa ai media: da un lato sono stati la fortuna del calcio, regalandogli una visibilità globale con i conseguenti vantaggi economici, ma dall’altro lato quando sono stati usati male hanno creato anche  più di un problema. Riguardati le immagini dell’Ajax di fine anni ’60, dell’Olanda degli anni ’70, dell’Italia del 1982: non ti salta all’occhio la differenza di atmosfera»?

E’ anche una questione di contesto generale.

«Certo. Per me è sempre stato valido che si gioca per la propria società, per onorare la maglia e per i tifosi che sono allo stadio, spesso facendo grandi sacrifici. Ma oggi troppo spesso i calciatori crescono in un sistema di un certo tipo, dove certi procuratori (ma non generalizziamo, molti sono davvero bravi: pensa a Raiola, che scopre i talenti prima di tutti e sa proporli bene) e l’abuso di social fanno più che altro dei danni».

E i settori giovanili?

«E’ il problema numero uno. A parte l’Atalanta, quasi tutti pagano pochissimo gli allenatori dei settori giovanili: il risultato è che finiscono spesso in mano a gente che non ha la minima idea di cosa serva ai ragazzi di quell’età. Uno nasce calciatore, e certamente dovrà poi essere impostato tecnicamente e tatticamente, ma la prima cosa da fare è costruirlo come atleta responsabile e come uomo».

Un po’ com’è capitato a lei da ragazzo.

«A 18 anni stavo affacciandomi in prima squadra: a fine allenamento mister Arturo Silvestri – per tutti Sandokan - mi teneva a lungo a calciare, rifilandomi cazzotti sulla schiena per farmi piegare nel modo giusto e urlandomi “Sei un manovale del pallone, dove vuoi andare?”. Contemporaneamente però, in sede spiegava che ero un difensore di alto livello. Tempo dopo, quando gli chiesi perché mi martellava, mi rispose “Perché altrimenti non avresti mai imparato a giocare di fronte  a 40mila persone”. In succo: quando i calciatori crescono a coccole è un disastro. Magari sono tecnicamente indiscutibili, ma non diventano professionisti impeccabili».

Qualche esempio?

«Una volta ero in visita al City, allenato da Mancini, incrociai brevemente Balotelli e gli chiesi perché si fosse allenato così male. Lui mi rispose “Tanto non mi fa giocare”. Gli chiesi allora “Con chi giocate domenica?” e lui, sempre in dialetto bresciano, mi rispose “Non lo so”. Quando Prandelli da C.T. disse che la sua Italia avrebbe puntato su Cassano e Balotelli, immaginavo che non sarebbe andata lontano. Pensa invece a com’erano gli Azzurri del 1982 o del 2006».

migliori anni Piacenza Gigi Cagni 3-2

Come si riconosce un bravo mister?

«Un bravo allenatore deve gestire il gruppo e mettere i giocatori nel posto giusto. Nell’analisi di una partita contano due dati: i tiri in porta fatti e i tiri in porta subiti. Non sopporto gli allenatori che vogliono mettere in evidenza tutta la loro bravura e l’importanza del loro sistema di gioco, perché la realtà è che non esiste un sistema di gioco che faccia vincere: a vincere le partite sono sempre i giocatori».

Però ci sono anche tecnici eccezionali.

«Guardiola l’ho seguito al primo anno al Barcellona: nell’atteggiamento, nel rapporto con i giocatori, negli occhi della tigre, nel parlarci capisci subito che è un fenomeno. Invece mi incavolo con Sarri e De Zerbi quando scrivono durante la partita: non ha senso. Come si fa a estraniarsi dal campo durante i 90 minuti»?

Prende appunti anche Mourinho.

«Mourinho è il numero uno della comunicazione: lui lo fa apposta! Le partite si rivedono e si analizzano, ma mentre si gioca vanno seguite e dirette. Senza esagerare, però, perché altrimenti spariscono la fantasia e i giocatori capaci di saltare l’uomo».

Quali squadre le piacciono, nella A di oggi, come stile di gioco?

«Juventus e Inter mi annoiano quasi sempre. Mi viene in mente quando sono stato al Ferraris per Sampdoria-Sassuolo e stavo per andarmene via: 25 minuti per un tiro in porta. Mi diverto invece con Atalanta, Lazio e Verona. Alla fine però il calcio resta unico soprattutto per un motivo».

Quale?

«Da calciatore detengo ancora il record del maggior numero di partite giocate in serie B, e se sommo quelle come allenatore ti posso dire che non ho mai visto una partita uguale ad un'altra, Simili sì, ma uguali mai perché le componenti che influiscono sono migliaia. Solo nel calcio non è così raro che l’ultima in classifica possa mettere severamente in difficoltà la capolista, e a volte batterla. Dare degli scienziati a certi allenatori serve solo a riempire le pagine, e torniamo a quanto dicevamo prima: alla meritocrazia».

In che senso?

«Se non recuperiamo questo valore, soprattutto per le scelte importantissime che ci attendono come Paese, sarà dura. Non lo dico per me, che ho quasi 70 anni, ma pensando al futuro dei miei figli e di mia nipote, che ha 5 anni. In questi mesi dovremmo aver capito che, quando non decidono quelli bravi, finisce male: dimentichiamoci le raccomandazioni e premiamo sempre chi è capace».

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