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Centenario Piacenza Calcio - Alle radici della storia biancorossa: Mario Giumanini, il primo capitano del club

Giumanini non fu solo il primo storico capitano del Piacenza nel 1919, fu primo attore nel calcio, nel ciclismo, nella sua professione e, perché no, sul palcoscenico di un teatro. Quella che vi raccontiamo è soprattutto una storia di sport a tutto tondo

È solo una fascia. Un pezzo di stoffa, oggi elastico, che negli anni con cadenza irregolare si sposta di braccio in braccio. Eppure un significato che vada più in là del rispetto al regolamento lo deve avere. Perché c’è un momento in cui un uomo viene scelto da chi è attorno a lui. Forse lui stesso non sa bene il perché e neppure il percome. Di mezzo ci sono però la stima che suscita negli altri, l’esperienza che ha maturato, le bravura che dimostra sul campo. E poi c’è anche qualcosa d’altro, di più impalpabile ma altrettanto importante: la capacità di fare ascoltare le sue parole. Si sa, quelle non si contano, si pesano. Le storie che compiono cent’anni cominciano anche così. Magari con un antefatto in una via del centro, come via Garibaldi, dove alla Latteria Moderna, in quel periodo dell’anno dove la primavera si stempera nell’estate, nasce il Piacenza Calcio. Discussioni accese, entusiasmo, strette di mano e qualche firma. Poi la scelta. La prima fascia di capitano sarà di Mario Giumanini. Sopra le teste degli avventori, appeso alla parete, un calendario che mette in bella mostra un numero di quattro cifre: 1919.

Un nome di quelli che oggi sembra si possano leggere solo negli archivi ingialliti di qualche biblioteca, quando gli individui avevano esistenze mutevoli, protagonisti in più campi nell’arco di una sola vita. Giumanini fu primo attore nel calcio, nel ciclismo, nella sua professione e, perché no, sul palcoscenico di un teatro. Ma quella che stiamo per raccontare è soprattutto una storia di sport a tutto tondo. Lo ricorda, dalle pagine del quotidiano Libertà, il giornalista Vincenzo Bertolini in un articolo datato ottobre 1967 dal titolo: “È morto il comm. Giumanini che amò e fece amare lo sport”.
Primo capitano del Piacenza Calcio e non solo. Direttore sportivo della squadra ciclistica dell’Arbos (che sotto la sua guida seppe farsi valere nel mondo professionistico), ma non solo. Mario Giumanini fu anche presidente del Pro Piacenza, membro provinciale della Federcalcio, giudice di gara di atletica leggera, consigliere della società Canottieri Vittorino da Feltre. Fuori dalla dimensione sportiva, poi, i suoi interessi lo portarono a calcare le scene teatrali con la Filodrammatica Piacentina, mentre nel 1953, con altri ventitré fondatori, costituì la “Famiglia Piasinteina”

I primi calci

 

Questo per dire che se ci fu mai un piacentino d’adozione, questo fu Mario Giumanini, milanese di nascita, il 30 giugno del 1892, quando ancora mancavano 27 anni all’atto di un’altra nascita, quella della società di cui sarebbe stato il primo capitano.
Nel capoluogo lombardo Giumanini diede i primi calci seguendo le orme del fratello maggiore, Nino Resegotti. Un esempio da seguire, quest’ultimo, per chi voleva dedicarsi al pallone in quegli anni in cui attorno al calcio cresceva in fretta il numero di appassionati. Resegotti fu infatti prima giocatore, poi allenatore e arbitro, sedette sulla panchina dell’Inter quando la squadra nerazzurra vinse lo scudetto 1919-20 e ricoprì il ruolo di commissario tecnico della nazionale prima e dopo la Grande Guerra del 1915-18. I primi passi di Mario nel mondo del pallone furono invece nell’Ausonia di Milano, nel ruolo di ala destra. Al suo fianco c’era Renzo De Vecchi, un fuoriclasse che per la sua bravura e attaccamento alla maglia venne successivamente soprannominato dai tifosi del Milan, squadra nella quale militò per diversi anni, “il figlio di Dio”. Era quello un calcio che oggi faremmo fatica a riconoscere. L’uso della rete dietro alla porta era stato consentito solo da pochi anni e all’occorrenza erano usate quelle dei pescatori, non era poi insolito che i calciatori calzassero sulla testa un berretto - si dice che il carismatico svizzero Walter Aemissegger di Winterthur, capitano del Venezia, ne portasse uno di velluto con un fiocco di fili dorati - oppure vedere l’arbitro assistere alle partite appoggiato al palo di una delle due porte per avere una migliore visuale del gioco. In questo calcio, che sarebbe con il tempo diventato il nostro, cominciò a tirare i primi calci il futuro capitano biancorosso.
La carriera di Giumanini proseguì a Torino, dove si trasferì per adempiere all’obbligo del servizio militare e dove indossò le casacche bianca e azzurra della Vigor e poi quella dell’Unione Sportiva Torinese, scendendo infine in campo anche con la maglia granata del Torino. Trasferito a Bologna, entrò a far parte della formazione del distaccamento del Genio Reale, diventando capitano della Nazionale Emilia.

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Nasce il Piacenza, Giumanini è il suo capitano

 

Nella nostra città giunse nel 1919, anno in cui, insieme ad altri appassionati locali (i vari Dosi, Guffanti, Antoniazzi, Rossetti, ecc.) diede vita al Piacenza Calcio. Per giocare a calcio è sufficiente un pallone, per partecipare a un campionato federale occorre anche un campo omologato. Il tempo stringeva e si affittò per una stagione un prato appena fuori Porta Cavallotti (l’attuale Barriera Roma), verso San Lazzaro, situato lungo il torrente Rifiuto nelle cui acque si racconta a volte finisse il pallone. Giocatori, soci, dirigenti e tifosi si diedero un gran da fare per trasformare quel prato in un campo regolamentare, dove la gente - a partire dall’inaugurazione del 26 ottobre 1919 contro la rappresentativa del 10° artiglieria di stanza a Piacenza - assisteva alla gara da dietro una delle due porte. Verrebbe così da dire che i primi tifosi biancorossi furono ragazzi della curva.

Prima di Gastone Bean, prima di De Vitis. Del Piacenza Giumanini fu il primo centravanti, vero e proprio favorito del manipolo di tifosi che assiepava lo stadio in quella stagione epica perché originaria della storia del Piacenza, famoso anche per la sua caratteristica rovesciata, curiosamente definita “alla Resegotti”, dal momento che Mario veniva chiamato alternativamente sia Giumanini sia Resegotti, il nome del fratellastro più famoso di cui si è già detto.
Quel campionato (dieci giornate in tutto, divise in un girone di andata e uno di ritorno) fu concluso dal Piacenza al primo posto, con 13 punti, guadagnandosi l’accesso alla Prima Categoria. Un successo al quale solo il Parma aveva opposto resistenza, ecco perché quando l’8 febbraio il Piacenza vinse la partita decisiva contro i parmigiani per 1-0 (gol di Boselli), capitan Giumanini - che sposatosi con la piacentina Arcide, per essere presente all’evento aveva interrotto il viaggio di nozze - fu portato in trionfo dai tifosi festanti dalla stazione fino al Bar Santa Margherita, che si trovava in Piazza Cavalli. Il Piacenza s’impose nettamente nel suo girone davanti a Parma e Spal, perdendo un solo incontro (1 a 0 a Bologna), pareggiandone due e vincendo tutti gli altri. E poco importa se la fatica si sarebbe a conti fatti rivelata inutile (l’anno successivo alla categoria superiore vennero ammesse tutte le squadre del girone, dalla prima all’ultima), quello che restano e per cui ci si innamora del calcio sono le emozioni. E quelle furono tante in quel primo anno di storia.
Per Giumanini il calcio giocato fu presto declinato al tempo passato, restò nella società biancorossa in qualità di dirigente, anche se in rare occasioni d’emergenza lo si rivide in campo. Qualche anno dopo, nel luglio 1926, il Piacenza Calcio gli consegnò una medaglia d’oro di benemerenza e nell’articolo sul quotidiano locale, dove ancora si fa confusione tra i nomi Giumanini e Resegotti, viene riportata la motivazione: «per quell’attaccamento e la fattiva opera altamente sportiva che Ella ebbe a dimostrare ed a svolgere nell’interesse del Club, in un primo tempo, in qualità di Capitano della vittoriosa squadra del campionato di promozione, successivamente quale appassionato sportivo e socio affezionato». Ma nella storia del sodalizio che legò Giumanini e lo sport non fu quello l’epilogo. Ci sarebbero state altre pagine da scrivere e altre strade da percorrere. Tinte di rosa.

Al Giro d’Italia (su quattro ruote)

 

Erano gli anni del dopoguerra e la città, ferita, si stava per rialzare insieme a tutto il Paese. Gli italiani correvano sullo stesso sellino di Coppi e Bartali, che li avrebbe portati al decennio successivo, quello della ricostruzione. Nel 1949, per volontà dell’ingegner Luigi Lodigiani, nuovo presidente dell’Arbos, a Giumanini fu affidata la conduzione tecnica della squadra professionistica piacentina. Giumanini affrontò questa esperienza, per lui completamente nuova, con entusiasmo, affiancando alla competenza del vecchio uomo di sport l’innata umanità del suo carattere. Un’umanità che manifestò anche nell’epilogo, per certi versi drammatico, della sua avventura sull’ammiraglia dell’Arbos nel 1956. Dopo tanti successi ottenuti sulle strade di tutta Europa, quell’anno la formazione bluarancio sembrava ad un passo dalla conquista della vittoria più desiderata, quella del Giro d’Italia. Il suo portacolori Pasquale Fornara, grazie soprattutto al trionfo nella cronometro Livorno-Lucca, a sole tre tappe dal termine si trovava in testa alla classifica generale. Ma nella frazione dolomitica Merano-Monte Bondone avvenne il colpo di scena. In una giornata dalle condizioni meteorologiche impossibili, sotto una vera e propria bufera di neve, lo scalatore lussemburghese Charly Gaul conquistò il traguardo parziale e la maglia rosa. Fornara, reso semincosciente dal freddo e dalla fatica (nonostante il prodigarsi del meccanico Franco Migli che cercò di rifocillarlo), venne fermato proprio da Giumanini quando mancavano appena 500 metri all’arrivo. Ancora scosso per quanto era accaduto, la sera stessa il direttore sportivo piacentino sfogò alla radio tutto il suo sgomento. Non mancarono le polemiche: in molti si chiesero, più che legittimamente, quale valore tecnico potesse avere una corsa disputata in quelle condizioni e quali interessi avessero mosso gli organizzatori nella decisione di non sospendere la tappa. L’episodio segnò profondamente Giumanini che da quel momento, naturalmente in punta di piedi e senza clamori, si allontanò definitivamente da uno sport nel quale ormai non poteva più ritrovarsi.

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Di braccio in braccio

 

È il primo giorno di agosto. Il Piacenza calcio, in mano al presidente Vincenzo Romagnoli, sta correndo a grandi passi verso i suoi primi 50 anni. È il 1967 e in città si presenta la squadra biancorossa, che sotto la guida di Sandro Puppo - poi sostituito da Leo Zavatti - quell’anno partecipa al campionato di serie C. Quella è anche l’ultima volta in cui Mario Giumanini partecipa alla scena pubblica. Immaginiamo il vecchio capitano scherzare con il nuovo, Ottavio Favari, difensore centrale arcigno, di Podenzano, che ancora oggi è sul podio dei giocatori che vantano il maggiore numero di presenze con la maglia biancorossa (273), superato solo da Gianpietro Piovani (342) e Giuseppe Cella II (282), detto Pitìn. Solo due mesi dopo, Giumanini se ne andrà per sempre. La sua presenza al vernissage del Piacenza di quell’anno fu un ultimo attestato dell’affetto che legò l’uomo alla sua maglia e fu benaugurante per colui che indossava allora la fascia di capitano. Infatti, come scriverà qualche anno dopo Luigi Carini sul magazine Piacenza Sport: «… di Favari si ricorda l’annata strepitosa 1967-1968 quando fu il capocannoniere della squadra ed uno dei migliori realizzatori della serie C mettendo a segno ben 13 reti…».

Per le notizie di indagine archivistica, l’articolo si è servito delle ricerche e dei testi del collega Graziano Zilli.

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