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Giovedì, 25 Aprile 2024
Piacenza Calcio

Adelante amigo. Giorgio Papais e un calcio che non c’è più: «Lo spogliatoio di quel Piacenza ti metteva in riga dopo 5 minuti»

Un viaggio fantastico nel Friuli degli anni '60 tra partite al campo, ciliegie rubate e la combriccola dei 15. Gli allenamenti con Zico: «Terribile marcarlo nelle partitelle, se gli facevo male mi arrestavano» e poi la grande avventura nei biancorossi. «Mi radevo la barba alle 3 di notte, il Moro se lo ricorda bene».

C’è un “ma”?
«Certo che c’è. Una volta dove ti mettevano giocavi, punto e stop. Oggi sento ragazzini che ti dicono “mister io sono un centrocampista di sinistra, sono più rifinitore, sto più davanti alla difesa”. Tutte cose che una volta non c’erano: dove ti mettevano giocavi».

La tua carriera inizia da lì a poco?
«Sono andato via a 14 anni, mi prese il Milan tramite due selezionatori, uno di loro era Parise, ma non ho mai giocato per i rossoneri. A quel tempo facevano un provino su tre partite, passai il primo. Mi chiesero allora di andare a centrocampo e iniziare a tirare in porta: bum, subito traversa. Passai alla selezione successiva e mi acquistarono».

Però?
«Mi mandarono al centro del Milan, Vittorio Veneto, solo che dopo un mese il Milan decise di chiuderlo e di mandare i più bravi a Milanello mentre gli altri - tra cui io - furono dirottati all’Udinese che a sua volta parcheggiava i giocatori a Conegliano. Insomma, mi comprò il Milan però non ci ho mai giocato».

E poi?
«Da lì C2 a Conegliano, non avevo nemmeno 16 anni. Tornai all’Udinese e vincemmo il campionato Nazionale d’Italia con la Primavera dopodiché nel 1980 faccio improvvisamente l’esordio in Serie A, contro la Fiorentina, mi toccò marcare Antognoni».

Battesimo del fuoco.
«Devi sapere che l’Udinese esonerò l’allenatore e promosse alla guida della Prima Squadra quello della Primavera che allenava me, Enzo Ferrari. Ci chiamò per la gara con la Fiorentina e alla domenica mattina mi guardò dicendomi “Giorgio, oggi marchi Antognoni”. Avevo 19 anni. Io rimango sul colpo un attimo, mi guarda Acerbis “ocio che non ti prende in giro”. E subito dopo Ferrari “se non te la senti dimmelo”. Non avrei mai potuto dire di no e quindi mi ritrovai in campo contro la Fiorentina che, se non ricordo male, era o prima o seconda in classifica dopo 4 giornate».

Come andò?
«Finì zero a zero, penso di aver giocato in totale quattro palloni quella domenica. L’unica cosa a cui pensavo era seguire Antognoni, randellare, marcarlo e appena avevo la palla tra i piedi subito scarico. In tre giorni mi ritrovai dalla Primavera alla Serie A».

Che storia. Calcio migliore quello di quei tempi?
«Ogni periodo fa storia a sé. Non posso dirti che i giocatori di una volta erano più forti di quelli di oggi anzi, adesso sono più completi perché sanno fare tutto ma non eccellono in nulla. Una volta era molto diverso, i marcatori ad esempio erano dei veri e propri cani, non ti mollavano un istante e se la sbrigavano con passaggi di tre metri. Considera che al tempo giocavi su 70 metri di campo, oggi sei chiuso in 40. Quando giochi su 70 metri senza il supporto del compagno se sei scarso lo vede anche il prete da casa tua».

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Zico?
«Ti rispondo Franco Causio. A Udine c’era anche lui e ti assicuro che era un giocatore eccezionale. Matto fuori dal campo, top sul rettangolo verde».

Però è Zico.
«Ho avuto la fortuna e la sfortuna di conoscerlo, doppia lettura. La fortuna è stata quella di giocare con un campione pazzesco. Arrivò in Italia quasi a fine carriera o comunque non nel clou, a differenza di Maradona che arrivò qui nel pieno della sua carriera. Maradona giocava per il pubblico, Zico era essenziale e questo lo rendeva tremendamente forte. Gli ho visto fare cose straodinarie e ti dirò, tra i due prendo su Zico».

La sfortuna?
«Al giovedì c’era sempre la partitella di allenamento e a me toccava marcare Zico. Un problema unico perché con lui se eri titubante non potevi intervenire. Cioè, pensa se per caso avessi fatto male a Zico, mi mettevano in galera e gettavano via la chiave. Quindi non sapevo mai come prenderle quelle partitine».

In conclusione?
«Non saprei dirtelo, l’ho marcato tutti i giovedì pomeriggio per un anno intero e ancora oggi non riesco a spiegarti cosa faceva. In partita faceva meno della metà di ciò che gli ho visto fare in allenamento. Al venerdì c’erano i cross degli esterni, lui infilava al volo sotto la traversa nove palle su dieci. E poi le punizioni, ne calciava una decina, sette finivano precise precise sotto l’incrocio dei pali. In conclusione ti dirò: Zico era uno che quando ti puntava, in realtà, nella sua testa ti aveva già saltato».

Perché a un certo punto ti troviamo a Piacenza?
«In precedenza conobbi alla Triestina il direttore sportivo Marchetti. A Trieste feci due stagioni, alla seconda mi bollarono come “finito”. Pensa il “culo” che ho avuto. Marchetti si ricordava di me, era andato al Piacenza poco prima, mi chiamò e fissammo un incontro».

Dove?
«A Lignano. Lui andava sempre lì, secondo me ci va ancora. Devi sapere che Marchetti è tremendamente abitudinario, se sta bene in un posto torna sempre lì. Ci sedemmo attorno a un tavolo e in un minuto trovammo l’accordo senza guardare minimamente l’aspetto economico».

Non parlava da anni e ci ha rilasciato un’intervista proprio pochi giorni fa. Personaggio fondamentale.
«Per me lui è stato il massimo. Io ho conosciuto e stimato due persone: Marchetti e Luporini. Mai conosciuto nessuno più corretto di loro. Pensa che il Piacenza li aveva tutti e due ed è riuscito a mandarli via».

Ci facciamo venire il sangue amaro o andiamo oltre?
«Ma no dai andiamo oltre». Concordiamo, ma Papais è Friulano, ti parla una volta sola. Non avrebbe avuto alcun problema a scendere su questo terreno. Qui, però, raccontiamo emozioni.

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Cagni?
«Marchetti mi disse che ci avrebbe allenato lui e io lo conobbi, per modo di dire, in precedenza durante una partita contro la Sambenedettese. Gli diedi una botta in campo pazzesca. Lui me lo ricordò il giorno della presentazione a Piacenza e mi disse “mi hai fatto un male boia ma non ho voluto fartelo vedere, ho continuato a giocare come se nulla fosse”. Questo è Cagni. Ci incontrammo credo fuori dall’Hotel Florida e poi partimmo per il ritiro di Serina».

Quel ritiro è mitologico nei racconti dei tuoi compagni.
«Si parte con un’ora di lavagna al giorno, poi una preparazione massacrante. Ci faceva correre su una pista da sci, un chilometro massacrante in salita, giro attorno alla montagna e poi un chilometro di discesa su cui era impossibile fermarsi. Robe da matti. Quando il preparatore la volta successiva vide il percorso gli disse “Gigi sei pazzo a fargli fare questa cosa”. Inoltre io al tempo non stavo bene fisicamente, soffrivo di peritendinite, se mi toccavi saltavo alto 2 metri dal dolore. Non fu facile l’inizio».

Tanto che?
«Io e Cagni ci scontrammo duramente un giorno, da quell’episodio a Lugo di Romagna iniziò un rapporto nuovo, migliore. Ci trovammo a quattr’occhi, faccia a faccia, per dircene di tutte i colori. Lui è una sanguigno, io non mi tiro indietro. Puoi immaginare, quasi arriviamo a darcele. Da lì nacque una stima reciproca».

Rapporto che si rinsaldò anche per un altro episodio?
«In C non partimmo bene e lui chiamò tutta la squadra a fare un colloquio, uno a uno, per capirne i motivi. Ne uscì che la motivazione era psicologica. Quando fu il mio turno gli dissi “mister secondo me andiamo male perché corriamo meno degli altri”. All’inizio s’incazzò, poi capì che ero stato onesto e gli avevo detto la verità. Cagni poteva contare su di me, gli avrei detto sempre la verità senza girarci attorno».

Era uno psicologico Cagni?
«Certamente. A Serina ci dava dei fogli con dei test da compilare e uscì che secondo i miei compagni io ero il leader della squadra. Io? Che non parlavo mai. Ahaha che risate quel giorno. Me lo disse il grande Pinotti “ehi il mister non ci voleva credere quando ha visto i risultati del test, diceva: è impossibile dai, Papais non parla mai e poi mai”.

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