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Calcio - L'insegnamento di Pea: «La passione è fondamentale»

Fulvio Pea, recentemente allenatore di Padova e Juve Stabia e in passato tecnico della Primavera della Sampdoria e dell’Inter, è stato protagonista di un incontro organizzato dal Gotico Garibaldina nella sede della società dal titolo “L’arte di...

Fulvio Pea, recentemente allenatore di Padova e Juve Stabia e in passato tecnico della Primavera della Sampdoria e dell’Inter, è stato protagonista di un incontro organizzato dal Gotico Garibaldina nella sede della società dal titolo “L’arte di insegnare”. Uomo energico e grande comunicatore, Pea ha raccontato la propria vita calcistica, proponendo punti di vista e convinzioni interessanti, maturate tra studio attento del football e il lavoro imprescindibile sul campo con ragazzi di tutte le età.

PASSIONE - «Dal mio punto di vista – ha spiegato il tecnico - tutti voi siete artisti e potete insegnare calcio. Determinante è, tuttavia, la passione perché è il fattore che genera entusiasmo e l’entusiasmo è contagioso. Sono elementi che non si comprano, che non si imitano. E’ qualcosa che ognuno ha dentro. Guardando alla mia storia, posso dire di essere stato un uomo sin qua fortunato. Ho iniziato a scrivere formazioni su un foglio a 24/25 anni, dopo che capii che il ruolo di giocatore non faceva per me. Ho avuto la possibilità di conoscere ambienti professionistici a qualsiasi livello perché qualcuno ha creduto nelle mie capacità. Posso tranquillamente dire, però, che le emozioni più belle le ho provate quando, smettendo di giocare dopo un rifiuto netto per il calcio dettato dalla delusione, sono ritornato su un campo come mister. Mi chiamò la squadra dei frati cappuccini, in oratorio a Casalpusterlengo dove io sono nato. Il gruppo che presi in mano contava undici bambini. Dopo nove mesi di attività, al termine del campionato, il gruppo si allargò a trentasette giovani. Una difficoltà estrema perché tutti dovevano, giustamente giocare. Ecco, questo è stato l’anno più emozionante della mia carriera perché come uomo ho provato soddisfazioni immense, anche se le partite le perdevamo quasi tutte. La mia passione di educatore e allenatore aveva contagiato i bambini che, a loro volta, chiamavano gli amici a venire sul campo per divertirsi insieme. Davvero gratificante».

CULTURA SPORTIVA – «Quello che si è perso in questi anni è il divertimento. Basta andare a vedere una partita di pulcini o esordienti, dove se ne vedono di tutti i colori: genitori che insultano o meglio massacrano l’arbitro, noi allenatori colpevolizzati di qualsiasi cosa, soprattutto perché non facciamo giocare alcuni bambini. Purtroppo la coscienza educativa si è notevolmente ridotta e anche la cultura dello sport italiano è livellata verso il basso. In Italia esiste il culto della vittoria e non quello del bello e questo è un elemento devastante che stritola e distrugge l’essenza del calcio. Noi allenatori dobbiamo essere bravi a non lasciarci condizionare, ad esprimere l’entusiasmo che abbiamo. In questo modo riusciremo a plasmare un gruppo e a fare il bene dei ragazzi».

UN GRANDE OBIETTIVO – «Voi più di me, dato che ora alleno gente di una certa età, come educatori e istruttori, avete un grande compito, superiore al mio: costruire uomini veri ed onesti. Una responsabilità non da poco, visto come sta andando il mondo. Ancora oggi ricevo chiamate di giocatori che ho avuto da ragazzini. Alcuni di loro hanno fatto carriera, altri no. E proprio di queste chiamate io sono orgoglioso perché vuol dire che ho lasciato qualcosa, che sono diventato un punto di riferimento, soprattutto nei momenti di difficoltà».
Chi è l’allenatore? - «Il gioco del calcio è un gioco di squadra, fatto di tante persone diverse. E non tutti hanno bisogno della classica ‘pacca sulla spalla’, o dell’urlo, forse nessuno ha bisogno del rimprovero, tutti, però, vogliono essere applauditi e incoraggiati. Io cerco di dialogare continuamente con i miei giocatori, uno a uno perché ho imparato, nel corso della vita, che nel nostro sport il protagonista non è l’allenatore, ma il giocatore. Noi mister siamo a disposizione, completamente al loro servizio. Detto questo, il mio suggerimento è: date regole semplici e precise che vanno assolutamente rispettate, però non trattate allo stesso modo i vostri ragazzi perché non sono tutti uguali. Loro hanno bisogno di voi in quanto figure di riferimento che, magari, mancano nella vita privata perché non sono seguiti dai genitori o hanno problemi simili. Spesso cosa capita invece? Che noi allenatori li “usiamo” per cercare di scalare le gerarchie e ottenere un riconoscimento dall’esterno. Liberi di farlo, ma in questo modo ho imparato che si fa del male ai nostri ragazzi».

ANEDDOTI - «A volte non ho ottenuto grandi risultati come educatore. Quando arrivai alla Sampdoria nella stagione 2007/2008, mi dissero, affidandomi la Primavera, che avevo un unico obiettivo: vincere. Alla fine dell’anno io e la mia squadra conquistammo Campionato e Coppa Italia. Voi dite: scopo raggiunto. E invece, pur contento della stagione sotto il profilo dei risultati, non riuscii purtroppo a inquadrare alcuni di quei ragazzi, che sotto il profilo comportamentale avevano lacune gravi. Una notte mi chiamarono perché un mio giocatore aveva fatto un incidente in macchina. Era all’ospedale e quando gli chiesi cosa era successo, lui mi rispose che aveva voluto provare a passare con il semaforo rosso. Cose da pazzi».
Alberto Rossi

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