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Gas Sales Bluenergy - Simon si racconta: «Quando dissi addio a Cuba mi ritrovai per strada. Piacenza è stata la svolta»

Il centrale: «Quel giorno piansi all'aeroporto. Vendevo riso, zucchero, sono cose che un cubano le fa naturalmente per sopravvivere. A Piacenza sono cresciuto come uomo e sono stato aiutato. La pallavolo? All'inizio volevo giocare a basket»

GSE_banner_322x250_statico-2Trentasei anni li ha compiuti in giugno. Lui, Robertlandy Simon Aties è considerato uno dei centrali più forti al mondo. È cubano, voleva giocare a basket ma iniziò con la pallavolo, quando aveva undici anni. E a 23 anni, dopo tante partite giocate con la maglia di Cuba, prima di iniziare la World League 2011, la sua storia si spezza. Il capitano della nazionale cubana decide di allontanarsi, lasciare la nazionale. Una decisione che non è presa bene dalla Federazione, ma lui la conferma senza dubitare. E da quel momento il gigante buono inizia un percorso legale che finirà a novembre di 2012, quando la FIVB gli conferisce il transfer che l’abilita ad aggiungersi come giocatore professionista nella Superlega Italiana, a Piacenza.

«Era arrivato il momento di prendere una decisione per la mia vita – sottolinea Robertlandy Simon – Cuba voleva vittorie, noi vincevamo, ma non ricevevamo nulla in cambio. Io ero un po’ stanco di questa situazione, un giorno mi sono alzato e ho detto a mia mamma che non avrei più giocato per la nazionale cubana ma andavo a cercarmi una nuova vita in un’altra maniera. La Federazione non l’ha presa bene, mi hanno cancellato l’accesso ai centri sportivi di Cuba. È stato difficile abbandonare Cuba, lasciavo tutti i miei affetti, una figlia ancora piccola, non sapevo se sarei potuto tornare e all’aeroporto ho pianto. Ma dovevo cambiare, volevo diventare un professionista».

La possibilità di giocare in Italia arriva dopo diversi mesi.

«Dopo un anno e durante quell’anno sono stato per strada, giocavo un po’ a calcio per sudare un po’, facevo addominali, tutti i tipi di esercizi che non hanno bisogno di una palestra. Ricordo che c’era un palazzetto d’erba aperto, quindi andavo lì e facevo il mio tutti i giorni. Vendevo riso, zucchero, sono cose che un cubano le fa naturalmente per sopravvivere. All’improvviso, mi arrivano notizie da Piacenza, volevano che andassi a giocare per loro. Gli spiegai che non era facile, che ero in mezzo ad un processo legale. Loro si sono mantenuti fedeli a me e, inoltre, mi hanno pure aiutato».

Cosa rappresenta per te la pallavolo?

«La mia vita, è l’unica cosa che ho fatto fino ad ora. E per fortuna mi riesce abbastanza bene, pensa quando ho iniziato non ero affatto bravo. Non mi sono avvicinato io alla pallavolo ma lei si è avvicinata a me quando avevo undici anni, volevo giocare a pallacanestro ma all’ultimo mi hanno detto che non c’era posto per me, hanno proposto a mia madre di farmi fare pallavolo, lei ha detto che dovevano parlare con me e ho deciso di provare. Sono rimasto fino a 16 anni, non ero bravo ma normale, studiavo e giocavo, a Cuba le due cose vanno di pari passo. Quando sono entrato nella Nazionale juniores ho capito che era necessario impegnarsi ancora di più visto che la pallavolo poteva essere un salto di qualità nella mia vita. A 17 anni ero nella Nazionale maggiore».

Piacenza l’hai sempre considerata la tua seconda casa.

«Quando sono arrivato mi sono trovato in una città fredda io che ero abituato al caldo, mi sono sentito un bambino piccolo che doveva imparare a vivere, che doveva scoprire le cose. Sono stato accolto molto bene, tutto era diverso da Cuba, qui ho iniziato a guadagnare i miei primi soldi, qui è arrivata la svolta nella mia vita. Mi piaceva la sfida, il volere diventare sempre più forte di quello che potevo essere, mi sono allenato tantissimo, Piacenza inizialmente ha rappresentato la parte più difficile della mia vita, mi ha fatto diventare grande».

Robertlandy Simon e la famiglia?

«La famiglia è tutto, io ho quattro fratelli uno di sangue, alla famiglia, a mia madre devo tantissimo. Mia madre mi ha sempre dimostrato che la famiglia è quella che ti sostiene quando sei in crisi, è successo tante volte quando ero piccolo e vedevo cosa succedeva, mi ha sempre insegnato che, se c’è un piatto da mangiare in quel piatto possono mangiare tutti».

Simon e il prossimo?

«Dicono che sono generoso ma non è vero, sono una persona normale che pensa che in questa vita tutti abbiamo bisogno di tutti, anche se sei miliardario hai bisogno di qualcosa e qualcuno che tu non hai, se non ti costa niente devi provare ad aiutare».

Se non avessi giocato a pallavolo cosa avresti fatto?

«Non lo so, sicuramente avrei provato ad inventarmi qualcosa, magari sarei stato per strada a chiedere l’elemosina, a me piacciono le sfide e mi impegno al massimo per raggiungere l’obiettivo».

Dopo una lunga assenza sei tornato a giocare con la Nazionale Cubana.

«Sono stati bravi e flessibili, sapendo che non sono più giovanissimo abbiamo trovato il giusto accordo affinché io potessi stare bene e nello stesso tempo potessi aiutare loro. Questa estate giocherò solo il torneo di qualificazione alle Olimpiadi, niente VNL. La pallavolo è ancora tutto per me, è bella e affascinante perché puoi perdere contro una squadra debole in un attimo. E quando si scontrano due squadre forti, vince quella che ha più fame di vittoria. Dipende chi ha più voglia».

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